Le crescenti pressioni sul fronte economico e della competitività spingono le imprese verso nuove e innovative strade per ridurre i costi e il crescente uso di robot nelle attività produttive e dei servizi potrà causare, in assenza di interventi di riequilibrio, un impatto devastante sul mondo del lavoro.
La presentazione in sommario potrebbe lasciar intendere un atteggiamento negativo nei confronti dell’automazione industriale e dei sistemi robotizzati in particolare, al pari del luddismo, il movimento sviluppatosi in Inghilterra all'inizio del XIX secolo contro le macchine. Occorre quindi sgombrare il campo da fraintendimenti: un passaggio esteso da lavoro umano a lavoro “robot-based” non è una possibilità ma una certezza, e qui, proseguendo idealmente il nostro articolo di marzo dedicato ai robot e agli ambienti di lavoro concepiti per l’uomo, vogliamo condividere con i lettori alcune delle ipotesi che iniziano a circolare sugli effetti dell’impatto modificante sul lavoro dell’uomo. Se per automazione si intende l’uso di sistemi di controllo e tecnologie dell’informazione per “ridurre” la necessità di lavoro umano nella produzione di beni e servizi, è pur vero che negli ultimi due secoli, dalle prime macchine a oggi, non si può certo definire l’automazione come causa strutturale di perdita di posti di lavoro. Semmai automazione e robot hanno avuto effetti positivi a livello macroeconomico supportando una crescita globale e anche, pur non ovunque, più alti tenori di vita. Ma cosa potrà succedere nei prossimi 20 anni, cioè da qui al 2030?
Le certezze
L’attuale stato dell’arte dei sistemi robotizzati e i trend tecnologici in atto, manifestano tutta una serie di certezze; la prima è che i robot, sia in forma fisica che anche solo elettronica (con ciò intendendo qualsiasi sistema in grado di sostituirsi all’uomo) diventeranno parte integrante del quotidiano anche in modo imprevedibile. Già oggi alcuni robot sperimentali esprimono emozioni funzionali e capacità di ragionamento, e robot-androidi con sembianze umanoidi hanno fatto la loro comparsa, soprattutto in Giappone. L’efficienza e la precisione dei robot sta trasformando il manufacturing, la ricerca e l’industria in genere, espellendo, questo sì, non pochi lavoratori, e se ci spostiamo nell’ambito delle biotecnologie, elementi robotizzati già possono sostituire parti del corpo umano dando nuova vita ai diversamente abili. I robot, alla fine, garantiranno all’umanità molti e diversificati benefici, anche se si andrà incontro a problematiche etiche, sociali e di sicurezza che dovranno essere seriamente affrontate, cessando di considerarle come inutile gioco intellettuale di una cerchia ristretta di addetti ai lavori.
La realtà economica
Recenti statistiche dagli Stati Uniti evidenziano che se il costo medio di un addetto esperto del comparto automotive è di 30$/ora mentre il costo medio di un’attività robotizzata è di 0,30 centesimi, pari a 1/5 di quello di un operaio cinese, stimato sui 3$/ora. Aziende quali General Motors e Ford hanno ciascuna un installato di circa 50,000 robot, e la tendenza è all’aumento del lavoro robotizzato. Si possono stimare in quasi un milione i robot “in service” nel mondo, e secondola JapanRoboticAssociation, riferendosi ai soli robot “personali” o “service robot” in tutte le loro possibili declinazioni, quindi anche elettrodomestici avanzati e robot giocattoli, si ha una prospettiva di mercato di 15 miliardi di dollari per il 2015; altro dato: i sistemi robotizzati per applicazioni medicali e supporto a interventi chirurgici arriverà a 14 miliardi di dollari nel 2014. Considerando i robot industriali, la crisi globale ha certamente avuto i suoi effetti; per esempio nel 2009 si era determinata una significativa caduta delle vendite in Giappone e Corea, le due economie che più dipendono dal lavoro robotizzato, ma la situazione è in netto miglioramento e questo anche in Europa, con una crescita del 15% soprattutto veicolata dal comparto automotive. In sostanza, malgrado gli andamenti altalenanti imposti dalle condizioni di mercato, l’industria della robotica resta forte, con ampie possibilità di sviluppo soprattutto al di fuori del manufacruting, per le sue enormi potenzialità di generare profitti significativi. In tutto ciò, che fine farà il lavoro umano?
Competizione tra robot e lavoro umano
Secondo ricercatori di università e analisti di settore, l’inarrestabile sostituzione di manodopera umana con robot da qui al 2030 imporrà una redifinizione del mercato del lavoro. Oggi molti posti di lavoro non sono molto diversi da come erano 100 anni fa: un ristorante, per esempio, non è sostanzialmente cambiato dal 1900 ai giorni nostri, e lo stesso vale per altri luoghi di lavoro in cui l’uomo fa ancora la maggior parte del lavoro e questo perché, a differenza dei robot , vede, sente, comprende e si sa esprimere. Quindi non c’è ancora una competizione esasperata, a parte i lavori industriali pesanti e ripetitivi, perché i robot non hanno ancora le necessarie capacità sensoriali e cognitive. Ma le cose stanno cambiando: CPU, sistemi di memoria, reti neuronali, comunicazioni wireless basate su Cloud Computing, stanno avvicinando i robot alle capacità minime richieste per competere in qualsiasi normale lavoro umano. Se questa è la prospettiva (o la certezza) dei prossimi 20 anni, si inizia a chiedersi che fine faranno i quasi 3,5 milioni di posti di lavoro nei Fast Food delle città americane, quando sarà più conveniente sostituirli con chioschi automatizzati/robotizzati? Resteranno solo i manager e il personale di controllo, non più gli addetti al pubblico. Stesso discorso si ipotizza per negozi, alberghi, e ovviamente anche per le fabbriche. Non si tratta di fantasie, ma di realtà prossima ventura. Un veicolo elettrico a guida robotizzata che provvede alla consegna di pacchi non può che costare meno di un addetto umano, garantendo anche servizio migliore e più veloce. Nei soli Stati Uniti sarebbero espulse quasi un milione di persone addette alle consegne, e quanti in altri settori? Per saperlo, in una recente ricerca hanno elencato gli addetti in tutti i possibili comparti che saranno invasi dai robot, basandosi su dati statistici del 2000, quindi consolidati, e hanno fatto la somma. Al tempo erano 114 milioni i lavoratori in 7 milioni di imprese, e una stima prudenziale ha portato a individuare in 50 milioni il numero di posti di lavoro che saranno “ceduti” ai robot entro il 2030. Si tratta di una prospettiva dalle dimensioni epocali, anche solo considerando che durantela GrandeDepressioneil livello di disoccupazione era stato del 25%, mentre qui si parla quasi del 50%. Ma chiaramente occorre mediare questa catastrofe: se veramente i robot faranno di tutto e di più, questo non avverrà istantaneamente, e come avvenuto per l’automazione la società potrà trovare correttivi. Accettando comunque questa visione pessimistica, ne consegue la necessità di creare da qui al 2030 qualcosa come 50 milioni di posti di lavoro.
I “nuovi” lavori
Certamente i nuovi lavori non saranno nel manufacturing (vi saranno solo robot) e neanche nei servizi (ristorazione, negozi), nei trasporti (veicoli a guida robot), nella sicurezza, nella medicina, nell’edilizia, negli uffici, nella formazione (almeno in parte), nell’agricoltura, tutti ambiti in cui i robot sostituiranno in toto o in parte l’uomo. Occorrerà allora inventare nuove categorie di impieghi, ma quali e perché non vengono fuori già ora per combattere la disoccupazione? La risposta è crudele: perché non ci sono. Se i robot toglieranno lavoro all’uomo, occorre prenderne atto e muoversi di conseguenza ai massimi livelli. Finora l’equazione base è stata: lavoro uguale denaro, e per quanto valida anche in ottica di esasperata robotizzazione portando a ridurre i costi, l’effetto sul lavoratore umano è distruttivo. Non c’è una soluzione pronta ma piuttosto un rischio di pesante squilibrio di cui tener conto. Unica consolazione il fatto che finora l’automazione e i robot hanno sempre avuto effetti positivi sull’economia, e le previsioni che abbiamo esposto forse saranno smentite.