Si affermano nuove definizioni e acronimi per provare a dare forma alla complessità dell’attuale mondo del lavoro. Il fenomeno di instabilità peggiora e da “Vuca” (volatile, uncertain, complex e ambiguous) diventa “Bani”, neologismo per indicare un contesto “brittle (fragile), anxious (ansioso), non-linear (non lineare), incomprehensible”, ossia caotico e impossibile da definire.
Questa perdita di punti di riferimento, enfatizzata dalla pandemia, ma che prosegue con una diffusa fragilità e incomprensione di quanto stia accadendo, ha portato a un cambio di priorità nella vita delle persone, con nuove visioni e prospettive lavorative e la ricerca di un nuovo bilanciamento tra vita professionale e personale.
Tutto ciò ha generato il fenomeno delle dimissioni volontarie (“Great resignation”), che prosegue oltre la sindrome pandemica, a causa dell’instabilità geopolitica, delle crisi continue e della ricerca, non facile, di nuovi equilibri e nuovi sensi/significati da dare al lavoro e alla relazione di lavoro, più che al “posto” di lavoro.
Così, il 46% ha cambiato o ha intenzione di cambiare lavoro entro i prossimi 18 mesi. Il fenomeno si fa ancora più intenso nella generazione Z (under 27), coinvolta per il 77%. I settori più impattati sono il manifatturiero e i servizi e, tra i profili, gli esperti in digitale, che sono anche i più richiesti e difficili da trovare. Anche nel Finance si registra il fenomeno, con percentuali maggiori rispetto alla media per chi ha intenzione di cambiare lavoro (30% versus 23%).
Tuttavia, il 41% di quanti hanno già cambiato lavoro non sono soddisfatti della scelta fatta (soprattutto uomini e over 56 per il 76%), segno della difficoltà delle organizzazioni e delle divisioni HR di comprendere e rispondere alle nuove e diversificate esigenze delle persone con nuovi modelli gestionali. Sono i risultati della ricerca dell’Osservatorio HR Innovation Practice della School of Management del Politecnico di Milano, presentata durante il convegno “Vita, lavoro, felicità: disegnare una nuova relazione tra organizzazione e persone”.
Tra Work-life integration e Work-life separation
Tra altro, all’attuale complessità si aggiungono nuove complessità per gli HR. I lavoratori oggi sembrano dividersi tra chi segue la Work-Life integration (43%), vivendo l’integrazione tra vita privata e vita lavorativa del modello ibrido in modo fluido e chi segue invece la Worklife separation. Questi, all’altra estremità, vorrebbero tenere del tutto separate le due dimensioni e sono la maggioranza (57%).
In sostanza, i primi trovano nel lavoro una componente significativa di soddisfazione personale, mentre i secondi la trovano soprattutto fuori dal lavoro. Questi diversi approcci richiederebbero gestioni differenziate, facendo leva su aspetti diversi per assicurarsi il coinvolgimento e l’impegno delle persone e garantire qualità e continuità al business.
In aggiunta, si stanno già registrando delle derive preoccupanti per entrambe le tipologie di lavoratori, se non si gestiscono correttamente le due visioni/approcci. Per gli “Integrator” c’è il rischio di non riuscire più a smettere di lavorare e di essere preda di ansia da prestazione (6%, ovvero 1,1 milione di lavoratori). Ricercano autonomia e flessibilità, hanno un livello di engagement più alto della media, ma i ritmi e i carichi di lavoro sovrastano la sfera privata e generano problemi anche all’organizzazione. Infatti, trasferiscono ai colleghi pressione e tensione alla performance, con il rischio di creare fratture pericolose nell’organizzazione.
Dall’altra parte, il 12% dei “Separator” sarebbero già incorsi nel “Quite Quitting”, cioè si sarebbero spenti, adagiati nel loro ruolo senza più entusiasmo né motivazione (2,3 milioni di lavoratori). Questi non sono interessati a sviluppare relazioni lavorative e sono talmente sfiduciati che non hanno neanche più l’energia di cercare un altro posto di lavoro. Risultato di questo clima demotivato è che, in tre anni, l’engagement dei lavoratori si è dimezzato, passando dal 26% al 13%.
Perché i dipendenti cambiano lavoro
Le ragioni principali dell’abbandono sono retribuzione e benefit economici al primo posto (43%). Seguono flessibilità di orario (21%), salute fisica e/o mentale (19%), distanza dal luogo di lavoro (16%), contenuto del lavoro e possibilità di far carriera (13%). Si inizia anche a parlare di volontà nel lavoro di inseguire le proprie passioni (13%), soprattutto sotto i 30 anni. A questo si dà il nome di “Yolo Economy” (You only live once) e di ricerca di migliori relazioni interpersonali con capi, colleghi e collaboratori (12%).
Rispetto al benessere fisico, psicologico e mentale, in particolare, solo l’11% dichiara di stare bene su tutti e tre i fronti, mentre il 42% dice di essersi assentato nell’ultimo anno per malessere psicologico e/o relazionale.
«La pandemia ha fatto crescere in molti un senso di precarietà e individualismo che porta a non vedere più il lavoro come unica o principale priorità, ma a rivendicare il diritto di avere tempo e spazio per poter vivere tutte le altre sfaccettature della vita», spiega Mariano Corso, Responsabile scientifico dell’Osservatorio HR Innovation Practice.
«In questo contesto la Direzione HR può e deve avere un ruolo chiave nel comprendere e interpretare il futuro, aiutando l’organizzazione a ridisegnare la propria relazione con le persone. Le evidenze della ricerca suggeriscono come sia necessario partire dall’ascolto e dalla presa d’atto che, alla base della crisi attuale, ci sia innanzitutto una sempre più pressante ricerca da parte delle persone di equilibrio e felicità attraverso il lavoro. Un totale cambiamento di mentalità che sfida la cultura tradizionale»,
Quale leadership per risorse più motivate?
Una via suggerita per guidare sia gli Integrator che i Separator è una leadership basata sulla cultura del feedback, che ritiene di seguire il 60% delle imprese, ma solo l’8% valuta i manager sulla loro capacità di far crescere i team. Per coinvolgere di più i Work-life Separator, si suggerisce poi di puntare sulla valorizzazione dei talenti e su percorsi di crescita trasversali, che però fa ancora poco parte della cultura aziendale.
Infatti, se il 47% prevede percorsi di carriera anche non verticali, solo il 28% dà la possibilità di autocandidarsi in nuovi progetti interni ed esterni e solo il 19% fa leva sui punti di forza delle persone con piani di crescita (scarsa mobilità interna). Un altro strumento per andare incontro alle loro preferenze extralavorative è favorire community e/o iniziative per condividere interessi comuni, ma lo propone solo il 23% e solo il 13% coinvolge le persone nella definizione dei benefit aziendali.
«Sul fronte organizzativo serve apertura, ascolto, riconnessione, allineamento del lavoro agli stili di vita e ripensare come far collaborare le persone delle diverse generazioni, creando ambienti favorevoli anche attraverso il supporto delle tecnologie. Oggi tutti vivono lo stesso disagio post pandemia, in tutto il mondo, e non solo le nuove generazioni. Questo deve incoraggiare a far dialogare e lavorare insieme persone diverse», raccomanda Rachele Focardi, Multigenerational Workforce Strategist.
Dare voce alle persone: ascolto attivo, sentiment analysis e coaching
«Non si tratta solo di avere punti di osservazione su ruoli e responsabilità, ma anche su aspettative, interessi e preferenze, che sono aspetti personali in divenire, da monitorare con strumenti dinamici», spiega Andrea Langfelder, Business Development Manager di Oracle.
In Workday, per esempio, è in uso la pratica del “Feedback Friday”: ogni venerdì i collaboratori rispondono ad alcune domande precise sul livello di ingaggio, l’inclusività, il benessere e, in base alla risposta, cambiano le domande successive. «Raccogliere tutti quei feedback mi fa sentire responsabile di intraprendere, con il mio team di People management, azioni efficaci di miglioramento. Nel momento in cui si ha una solida base gestionale è più facile fare analisi e trarne degli insight. Per esempio, per ridurre il turnover, senza una piattaforma che monitori l’ingaggio delle persone è difficile orientarsi. Serve una comunicazione bilaterale che ingaggi e che dia elementi su cui fare business analysis», commenta Andrea Cissello, Regional Sales Director, Head of Mid-Market Italia di Workday.
L’HR svolge un ruolo molto delicato nel fare da cerniera tra management, personale e mercato del lavoro, ma prima di guardare fuori si assicuri di ascoltare la comunità di persone che ha all’interno. «Gli strumenti ci sono, ma si tratta di dare davvero la parola alle persone, perché siamo più felici se siamo significativi per qualcuno. Se veniamo al lavoro è per dare il nostro contributo, ma se nessuno ci chiede di partecipare diventa faticoso. È importante valorizzare i singoli contributi per la ricaduta sull’engagement», spiega Paolo Vitale, responsabile Sviluppo Progetti Itinere-Gruppo Humana.
Un altro strumento efficace per dare voce ai collaboratori è il Performance Coaching: «Concentriamoci su chi resta, perché anche loro possono aver accusato il colpo, non sentirsi più in un ambiente protetto, non sentirsi padroni di certi strumenti», commenta Valentina Napoli, Enterprice Transformation Consultant di CoachHub.
Incertezza sulle competenze del futuro prossimo
La carenza di personale qualificato è sempre più critica: il 59% prevede un incremento di personale nel 2023, ma il 94% ha difficoltà ad assumerlo per carenza di candidati. Le difficoltà nell’ultimo anno sono aumentate per il 74% del campione, tanto che il 12% ha già dovuto rinunciare a parte del proprio fatturato. Una su quattro le ricerche di personale sono su professionalità in ambito digitale: IT & Data Management, ma anche Innovazione e Sviluppo e Manufacturing & Production.
Una sfida/opportunità per l’HR è proprio quella di far evolvere le professionalità e le competenze presenti in azienda, coerenti con l’evoluzione del business e del mercato. Tuttavia, la difficoltà principale è il non avere chiare le competenze che serviranno nei prossimi 3-5 anni per rimanere competitivi (solo il 15% le ha chiare) e non pianificare quindi in maniera strategica le attività di riqualificazione(40%). Serve una strategia per superare il talent shortage che preveda sviluppo interno, assunzioni, esternalizzazioni e innovazione. Esternalizzare significa sfruttare l’ecosistema formativo e sviluppare collaborazioni con università, consulenti, ITS, in uno scambio di competenze e persone. Innovare significa ripensare i modelli di organizzazione anche rispetto alla riqualificazione dei ruoli e valorizzare le persone come risorsa scarsa e preziosa.
Quanto ai lavoratori, questi lamentano di non avere a disposizione strumenti e tecnologie per aggiornare le proprie competenze in modo adeguato (52%), anche se solo il 12% ritiene di non aver dovuto far evolvere il proprio profilo di competenza. Al contrario, il 74% ha dovuto apprendere nuove abilità per continuare a svolgere il proprio lavoro.
Investimenti HR Tech ancora poco diffusi
Gli investimenti in digitale delle Direzioni HR nel 2023 crescono con una media del 2,8%, in continuità con il 2022, ma la diffusione di queste tecnologie riguarda meno del 10% delle organizzazioni.
Scarso è anche l’utilizzo avanzato dei dati relativi ai processi HR. Solamente il 16% del campione effettua analisi per prevedere eventi futuri, esaminando i dati storici o per suggerire azioni correttive in maniera preventiva.
«Il mercato HR Tech si è evoluto a un ritmo straordinario negli ultimi anni, ma le applicazioni più innovative faticano a diffondersi sul territorio italiano. Ne sono un esempio le soluzioni di intelligenza artificiale, che offrono la possibilità di reinventare l’approccio della Direzione HR, personalizzando l’esperienza offerta alle persone, dai processi di recruiting ai percorsi di crescita e di sviluppo», conclude Martina Mauri, direttrice dell’Osservatorio HR Innovation Practice.
HR Innovation Award 2023
L'Osservatorio ha assegnato il premio alle organizzazioni che si sono distinte per aver innovato e migliorato i propri processi di gestione e sviluppo delle risorse umane.
Golden Goose vince nella categoria “Valorizzazione delle relazioni” con il progetto “Talent Innovation”, strumento di assessment della personalità dei collaboratori e con il progetto “Organization Network Analysis”. Il sistema mappa i network informali e i driver motivazionali delle persone, riportandoli ai manager sotto forma di dati, per ridefinire pratiche e processi HR con approccio “data-driven”.
Cerved vince nella categoria “Empowerment e sviluppo”, con un progetto a supporto della misurazione dell’engagement dei collaboratori e del loro sviluppo, con cui offre percorsi di crescita e formativi più in linea con le caratteristiche e i desideri delle persone.
Agsm Aim vince nella categoria “Digitalizzazione dei processi HR”, per la definizione di un progetto di revisione dell’architettura tecnologica a supporto dei processi e delle pratiche HR, offrendo un’esperienza di utilizzo migliore in un unico ecosistema “data-driven”.
L’HR Innovation Impact Award 2023, invece, è stato assegnato a Banca Ifis per l’evoluzione del progetto “Ifis Talent”, già premiato in passato, per l’introduzione di un sistema di scambio di feedback continuo e a 360 gradi tra capi, collaboratori e colleghi e logiche di gamification che motivano e ingaggiano i collaboratori al confronto. In questo modo Banca Ifis ha ridefinito il processo di Performance Management, rendendolo più efficace e co-partecipato.