Cresce la domanda di esperti di Intelligenza artificiale. È quasi raddoppiata la richiesta di AI Engineer, Machine Learning Specialist, AI Vision Specialist e Cloud AI Developer nel primo quadrimestre 2024 rispetto al primo del 2023 (+88% secondo dati Hays Italia.
Accanto alla ricerca di figure tecniche, però, imprese e consulenti iniziano a interrogarsi su come integrare culturalmente i nuovi sistemi di AI nelle organizzazioni. In particolare, si analizza l’impatto della versione generativa di Intelligenza artificiale, quella che usa il linguaggio naturale (GenAI). E si valuta su quali competenze e attitudini fare leva per una integrazione sostenibile, efficace e “umano-centrica”.
Giù le mani dalle soft skill!
Accanto all’acquisizione di competenze tecniche (programmazione, analisi dati e gestione di sistemi avanzati), cresce il bisogno di qualità umane non replicabili dalle macchine. Pensiero critico, creatività, problem solving, capacità di apprendimento, intelligenza emotiva e capacità relazionale sono le soft skill più richieste dalle aziende italiane.
La ricerca di Randstad Research e Fondazione per la Sussidiarietà ha esaminato 5,4 milioni di annunci di lavoro online in Italia tra il 2019 e il 2023. Le soft skill si attestano tra il 34% e il 58% delle competenze richieste. Arrivano fino al 50% nelle professioni medio-alte, sono sul 25% di quelle artigiane e operaie e balzano al 58% nelle professioni non qualificate.
«Le caratteristiche della personalità che riguardano la sfera emotiva e psico-sociale, o soft skill, sono sempre più cruciali in una società complessa e in rapida trasformazione come la nostra. Nel nostro contesto, è decisivo imparare a imparare», evidenzia Giorgio Vittadini, presidente Fondazione per la Sussidiarietà.
Potenzialità e limiti nel supporto dell'intelligenza artificiale generativa
Continuare a imparare resta dunque in capo all’essere umano ed è confermato da un esperimento di BCG Henderson Institute. In collaborazione con BCG X ed Emma Wiles della Boston University, 480 consulenti BCG hanno svolto due compiti a scelta fra tre task comuni di un Data Scientist.
Le prestazioni dei consulenti coadiuvati da GenAI sono state confrontate con quelle di 44 data scientist di BCG, a parità di compito ma senza “aiutino”. In particolare, nella capacità di programmare con linguaggio Python, i consulenti sono stati più veloci del 10%. Il miglioramento corrispondeva a 49 punti percentuali rispetto agli specialisti.
Nel compito di analisi predittiva, invece, né loro né lo strumento GenAI possedevano una competenza avanzata. Sono risultati più inclini a commettere errori rispetto al gruppo esperto. Su compiti complessi la competenza di dominio sembra dunque prevalere ancora sulla GenAI.
L'importanza dell'esperienza pregressa
Inoltre, consulenti con esperienza moderata in programmazione hanno ottenuto risultati migliori del 10-20% rispetto a quelli meno esperti. L’esperienza pregressa gioca un ruolo chiave nel successo delle attività svolte con l’AI.
Sottoposti a un test finale di cui non erano a conoscenza, chi aveva svolto compiti di coding non ha ottenuto punteggi più alti rispetto a chi non li aveva svolti. Se ne ricava che la GenAI può espandere le capacità produttive, ma non fa diventare competenti nel nuovo dominio, poiché l’apprendimento non è automatico.
«I risultati indicano che i lavoratori che usano la GenAI sono in grado di gestire efficacemente nuovi compiti. Anche al di fuori delle proprie competenze, se coperti dalle funzionalità dello strumento. Questo mi ha fatto riflettere su cosa significa davvero avere una expertise oggi. Un concetto che va inevitabilmente ridefinito a livello aziendale. Questo serve a identificare le competenze chiave da sviluppare, per attrarre e mantenere talenti a lungo termine». La riflessione è di Paola Scarpa, Managing Director e Partner di BCG X.