Il mondo della formazione si è trovato a svolgere un ruolo centrale nella gestione dell’emergenza sanitaria, per gli apprendimenti delle competenze digitali funzionali a smart/remote working. In una logica di Total Learning, il reskilling del personale sarà un focus post-Covid per molte imprese
In poche settimane, Covid-19 ha generato un cambiamento epocale del nostro modo di essere e di vivere, come cittadini, lavoratori, studenti. Abbiamo dovuto, tutti, riorganizzare lo spazio, il tempo e modificare il modo di relazionarci, a causa di quel distanziamento fisico necessario quale unica “arma” per limitare il contagio.
Eppure, nonostante il Lockdown, il mondo non si è fermato, laddove è stato possibile le organizzazioni, pubbliche e private, hanno cambiato le modalità di lavoro e di collaborazione: il lavoro a distanza è praticamente diventato la modalità lavorativa primaria di molte realtà.
L’IT e l’HR, la direzione delle risorse umane, sono stati gli ambiti aziendali maggiormente coinvolti in questa dinamica, per l’attivazione di piattaforme di smart working, l’uno, e per la riorganizzazione delle attività lavorative del personale e la formazione sulle nuove competenze digitali, l’altro.
E proprio la formazione, già in fase di evoluzione, ha assunto un ruolo quanto mai centrale, nonostante le difficoltà e la necessità di riprogrammare modi, tempi e contenuti. Annalisa Galardi, esperta di change e docente di Comunicazione di Impresa all’Università Cattolica di Milano, ci parla di come stanno cambiando i modelli formativi anche in relazione all’emergenza sanitaria globale.
L’effetto Covid sulla formazione
«Per chi si è occupato di formazione in questi anni caratterizzati dell’esplosione del digitale, che ha trasformato radicalmente il nostro modo di fare qualsiasi cosa tra cui quello di informarsi e di formarsi, l’esperienza dell’emergenza Covid-19 è stata come ricevere uno schiaffo: il virus è stato il vero “digital transformer”, più efficace di tutti noi consulenti nel far emergere il valore della formazione e l’importanza del suo ripensamento in chiave digitale», ci spiega Annalisa Galardi.
«Per un’azienda che si è trovata dalla sera alla mattina a riorganizzare le sue attività, poter contare su persone competenti e preparate anche ad acquisire rapidamente nuove capacità e nuovi contenuti utilizzando strumenti digitali, ha fatto la differenza. Tant’è che le aziende che avevano già costruito un sistema formativo capace di veicolare contenuti o di attivare persone coinvolgendole in modo digitale si sono trovate avvantaggiate rispetto a realtà che avevano ancora un sistema unicamente basato sulla compresenza», prosegue Galardi, affermando che Covid-19 ha solo accelerato in modo brusco e senza alternativa un processo di cambiamento degli stili di apprendimento avviatosi già con l’introduzione del digitale.
La dimensione del Total Learning nella formazione
«Il nome che avevamo dato a questo tipo di apprendimento portato dal digitale era quello di Total Learning nel senso che non esiste più una divisione spazio-temporale dei tempi di apprendimento», continua Galardi.
«Da molto tempo si parla, infatti, di Longlife Learning per indicare che l’apprendimento non avviene solo in un tempo, cioè quello della formazione scolastica e quindi dell’età scolare, ma prosegue per tutta la vita e quindi anche nelle imprese che, in qualche modo, si fanno carico dell’apprendimento delle loro persone.
Così come si parla anche di Lifedeep Learning che vuol dire non solo apprendimento di contenuti, ma trasmissione di valori per la crescita della persona. Una formazione che avviene, quindi, in tanti spazi diversi, il che significa che la formazione in un’impresa non avviene soltanto nelle ore dei corsi, ma è compito di chi si occupa di apprendimento portare all’attenzione delle persone i contenuti rilevanti individuando varie modalità possibili. In questo senso la competenza comunicativa è un valido supporto per il trasferimento efficace di contenuti e messaggi chiave».
Nel libro "The human side of digital", di cui Galardi è coautrice con Alessandro Donadio, si legge: "Le dinamiche social e le skill comunicative hanno un ruolo centrale. Il rimodellamento del nostro modo di intendere la formazione nei contesti organizzativi ci porta a vederla come un’attività basata su: la responsabilità di una rete distribuita di persone, la partecipazione attiva dei singoli individui, i legami orizzontali (peer-supported learning), le connessioni sempre più aperte (openly networked learning), un’attività sempre in progress, il superamento di gap intergenerazionali e di barriere interfunzionali, la valorizzazione degli interessi personali, uno stile comunicativo in sintonia con quello che le persone impiegano al di fuori del contesto organizzativo".
Bisogna saper comunicare per formare
«Nella formazione conta sempre di più il come, oltre al cosa, e questo è avvenuto perché il mondo digitale ci ha abituato a una comunicazione più vivace», prosegue Galardi. Un contenuto, anche se di valore, deve essere veicolato in modo accattivante.
«Pensiamo, ad esempio, all’enorme quantità di Ted Talk con contenuti di altissima qualità e con un elevato spessore comunicativo: perché non utilizzarli? Il valore della formazione sta anche nella selezione dei contenuti che si possono trovare già disponibili. Tali materiali diventano, pertanto, punto di partenza che, in una sorta di aula rovesciata, è possibile invitare a seguire già prima della formazione così da arrivare in aula traendo il massimo del vantaggio e il massimo del valore dalla compresenza in un luogo».
Un esempio banale ci fa comprendere meglio il concetto. «Non c’è azienda dove vado che non abbia un problema con il feedback: dare e ricevere feedback. Tutti sappiamo che è importante, tutti sappiamo come si dovrebbe fare, pochissimi lo fanno davvero. Ecco che la teoria si può apprendere facilmente anche con risorse online e che l’aula diventa “palestra”, luogo dove si sperimenta la trasformazione di un apprendimento in un comportamento reale efficace».
Un altro aspetto di valore dell’aula in compresenza, che si dovrebbe sempre ricercare anche in chiave digitale, è quello della presenza degli altri che insieme a noi fanno la stessa esperienza: è la dimensione di community, assolutamente importante ai fini dell’apprendimento orizzontale.
Un must per la formazione: riformulare i contenuti per il digital
«Già da qualche tempo, alcune organizzazioni hanno semplicemente trasferito in digitale i propri contenuti di formazione, abbagliati dai vantaggi legati, in particolare, al contenimento di costi. Il risultato, però, non è sempre stato entusiasmante, a causa della scarsa attenzione dedicata alla riprogettazione dei corsi in modo da catturare e mantenere l’attenzione e sollecitare la partecipazione attiva. È infatti necessario pianificare il coinvolgimento, ad esempio attraverso survey in diretta e dinamiche tipiche del game design», afferma Galardi, «oltre che stabilire e condividere i ruoli di un’aula digitale».
«Rispetto ai contenuti, al di là delle tematiche di innovazione quali Industria 4.0 che porta con sé anche nuovi contenuti, è fondamentale riformulare completamente la “lezione”, se questa non viene più svolta in un’aula», spiega Galardi e conclude affermando che nonostante le ferme convinzioni sul fatto che la formazione in presenza non abbia equivalenti, l’esperienza Covid-19 ha mostrato che l’e-learning si può fare, poiché è la qualità della progettazione che rende efficace un corso. È questo un tema sul quale in questo momento di pandemia gli esperti di formazione stanno riflettendo.
È veramente smart working?
Durante il Lockdown durato oltre due mesi, le piattaforme di smart working, anche in ambito industriale, e i software di collaboration sono state le soluzioni maggiormente adottate da aziende di ogni tipo e dimensione per riorganizzare le attività lavorative a distanza. Nella maggior parte dei casi, fatta eccezione di alcune realtà già strutturate e sensibili alle nuove dinamiche lavorative, sono state introdotte dalla sera alla mattina, senza un progetto e soprattutto senza un workspace digitale.
Il sentiment e i dati forniti da diverse indagini e survey sui lavoratori hanno, tuttavia, indicato una buona accettazione dello smart working, con effetti positivi anche su produttività e coinvolgimento. Ciononostante, realizzare un digital workspace, cioè un ambiente che consenta ai dipendenti di accedere ai sistemi e agli strumenti di cui hanno bisogno da qualsiasi dispositivo, che si tratti di smartphone, tablet, laptop o desktop, ovunque si trovino, aiuta a creare una condizione ideale per lo smart working. Che è diverso dal lavoro a distanza, o remote working.
«Per fare realmente smart working», ci dice Annalisa Galardi, «intanto è necessario che riprenda una sorta di normalità, con la possibilità da parte delle persone di scegliere davvero dove è utile per loro svolgere il proprio lavoro, e poi serve lavorare sulle culture organizzative, che spesso vanno accompagnate per abbandonare la filosofia del “comando-controllo” a favore di una basata sull’obiettivo e sulla responsabilizzazione individuale. Chi non sarà capace di fare questo passo non avrà molte chance di rimanere sul mercato».
La cosa certa è che cambierà il modo di lavorare. Già lo scorso anno, Idc aveva indicato che entro il 2021, il 60% delle aziende Global 2000 avrebbe adottato il Future WorkSpace, ovvero un nuovo spazio di lavoro in grado di migliorare l’esperienza e la produttività dei dipendenti attraverso un ambiente fisico e virtuale più flessibile, intelligente e collaborativo. Lo spazio di lavoro futuro non sarà statico o a orari prestabiliti, ma sarà ovunque, in qualsiasi momento, su ogni device.
Di base, il Future WorkSpace è un ambiente di lavoro aperto e altamente connesso, che permette all’utente di trarre vantaggio da mobilità, collaborazione remota e accesso sicuro a strumenti e dati, con semplicità e velocità, aumentandone soddisfazione e produttività.