Quattro i profili manageriali emersi dall’indagine commissionata da Federmanager a LIUC Business School: fuoriclasse e mediani nella grande impresa, poliedrici e specialisti nella Pmi. Molte le similitudini tra fuoriclasse e poliedrici per capacità cognitive e relazionali, con un modello di manager per il futuro che riunisce il meglio dei due profili e la necessità di una formazione dedicata
In una logica di filiera e di potenziamento della mobilità occupazionale, Federmanager si è interrogata sulle competenze necessarie al manager della piccola e media impresa (pmi) per interagire efficacemente con quello della grande impresa (GI) e per cogliervi opportunità lavorative.
I manager delle pmi e delle grandi aziende operano infatti in ambienti molto diversi per struttura organizzativa, processi, modelli relazionali con gli azionisti e/o con la proprietà, cultura d’impresa e altri fattori che possono limitare l’efficacia delle relazioni tra i due ambienti e la mobilità. Individuare le caratteristiche peculiari e i gap di competenze sia hard che soft, aiuta a progettare percorsi formativi efficaci.
Così, la ricerca commissionata da Federmanager al Centro di Ricerca sullo Strategic Management e il Family Business della LIUC Business School, con il sostegno dell’associazione 4.Manager, in collaborazione con l’Unione degli Industriali della Provincia di Varese, è partita dall’analisi delle competenze tecniche, cognitive e relazionali più frequenti nelle une e nelle altre e dai rispettivi gap formativi per arrivare a quello che potrebbe-dovrebbe essere il manager del futuro.
Nel frattempo, in una logica anche di politica attiva, nel progetto “Manager oggi: opportunità di sviluppo professionale e occupazionale nel modello di relazione piccola-media impresa e grande impresa” sono stati coinvolti un manager inoccupato a supporto del gruppo di ricerca di LIUC come “voce” aziendale e tre manager sempre inoccupati come consulenti per tre pmi del territorio.
«La transizione ecologica, la rivoluzione digitale, il riposizionamento sulle nuove catene globali del valore in grande subbuglio: sono queste le tre principali sfide che hanno di fronte a loro le imprese, sia le grandi, sia le medie, sia le piccole. Terreni su cui si giocano le future partite competitive che hanno tutte un comun denominatore: la necessità di investire nella creazione di nuove competenze, con un coinvolgimento dei vertici aziendali e di quei manager chiamati a governare e interpretare nel concreto tali fenomeni.
Questo fa della formazione uno dei principali driver di sviluppo su cui occorre sempre di più ragionare, così come avviene da tempo su altri fattori di crescita, con logiche di filiera e con progetti aperti di collaborazione in grado di trasferire esperienze e capacità tra imprese», commenta Roberto Grassi, presidente dell’Unione degli Industriali della Provincia di Varese.
Nel n. di settembre della rivista Industrie 4.0 troverete un ampio approfondimento su come evolve l’ecosistema della formazione e sulla formazione 4.0.
La ricerca di Federmanager
La ricerca è partita dall’assunto ormai condiviso che un mix di competenze hard e soft sia necessario non solo per i manager di una grande impresa, ma anche per quelli delle Pmi, a stretto contatto con l’imprenditore, con altre aziende della filiera, con la complessità e la volatilità dei mercati e con le esigenze di innovazione e trasformazione digitale in corso.
In questo scenario, l’approccio manageriale anglosassone della specializzazione spinta non sembra più appropriato, mentre prevale un modello incentrato su competenze soft cognitive e relazionali. In particolare, nel rapporto con l’imprenditore servono fiducia, ascolto, rispetto del patrimonio dell’impresa, capacità di proporre obiettivi misurabili e coerenti con le risorse e l’orizzonte temporale tipico di quell’organizzazione.
Le competenze hard sono quelle tecniche e specifiche del ruolo, acquisibili con la formazione scolastica, con corsi di perfezionamento e sul posto di lavoro (learn by doing).
Come abilità cognitive si intendono invece consapevolezza, ottimismo, autocontrollo, orientamento ai risultati, schemi mentali, coscienziosità, adattabilità ed eccellenza operativa, che si manifestano nella capacità di un manager di adattarsi in modo eccellente ai cambiamenti che sempre più caratterizzano i business di ogni settore, definendo processi sempre più efficienti e ottimizzando l’organizzazione aziendale al fine di perseguire una maggiore flessibilità.
Le abilità relazionali si riferiscono invece allo sviluppo di network di contatti e alle loro caratteristiche; alla creazione e alla gestione di team, anche eterogenei dal punto di vista culturale; allo sviluppo degli individui, all’empatia, alla gestione dei conflitti e alla leadership.
Rispetto al mix di hard e soft skill richieste oggi a un manager, lo studio quali-quantitativo di LIUC fa un passo avanti, rintracciandone la diversa distribuzione in coloro che lavorano per una grande impresa rispetto a quelli che operano nelle pmi. La ricerca si è articolata in 83 survey completate tra febbraio e giugno 2020 e 11 interviste one to one a manager e manager-imprenditori.
I quattro profili manageriali
Il Poliedrico è il manager delle pmi dotato di competenze tecniche solide in certe aree, nel complesso più generaliste, come amministrazione, finanza, controllo e project management, risorse umane, qualità, sicurezza e ambiente Presenta, al contempo, buone capacità cognitive e abilità relazionali (è una minoranza del campione).
Lo Specialista, invece, sempre nelle Pmi, rappresenta il manager anch’esso tecnicamente preparato ma in aree più tecniche (marketing & vendite; trasformazione e comunicazione digitale; gestione della produzione e dell’innovazione), ma ha un profilo cognitivo e relazionale più debole.
A sua volta, il Fuoriclasse è il manager della grande impresa con un livello medio di competenze più elevato in tutte le aree considerate.
Il Mediano infine ha un livello medio di competenze più basso rispetto ai fuoriclasse in tutte le aree considerate.
La notizia è che i manager poliedrici superano per abilità cognitive, seppur lievemente, i Fuoriclasse (3,60 versus 3,52), a dimostrazione della capacità di pronta reazione, adattabilità, flessibilità, ottimismo e autocontrollo che caratterizzano i manager delle pmi italiane.
Gli stessi Specialisti superano per competenze cognitive i Mediani della grande impresa (3,31 versus 3,20), a ulteriore conferma del buon livello di competenze cognitive dei manager di piccola e media impresa.
Se si escludono i Fuoriclasse, il livello di competenze tecniche degli altri tre cluster appare mediamente allineato. Infine, nelle abilità relazionali i Poliedrici seguono molto da vicino i Fuoriclasse (3,02 versus 3,16), risultando inferiori solamente in termini di network e di caratteristiche dei contatti (1,64 versus 2,41 e 2,94 versus 3,38), forse per le diverse dimensioni aziendali, mentre gli Specialisti e i Mediani risultano ancora simili.
Le esigenze formative dei manager del futuro
Come confronto generale tra manager di GI e manager di Pmi, le maggiori differenze si riscontrano in alcune aree tecniche, con conseguenti esigenze formative: gestione dell’innovazione, utilizzo di tecniche formali e strutturate di Human Resource Management, conoscenza e uso di tecniche connesse a Industry 4.0,come Big Data Analytics per la fabbrica, Strumenti di Additive Manufacturing e Internet of Things e la capacità di partecipare a bandi e/o progetti internazionali.
I manager di pmi mostrano anche qualche carenza rispetto a quelli di GI nelle competenze relazionali: network più limitati in termini di numero di contatti, diretti e indiretti, e meno internazionali, con riferimento anche alla creazione e gestione di team (persone, progetti, business) in differenti Paesi, con la capacità di accrescere l’inclusione e l’integrazione. In tal caso, la formazione relativa a temi di progettualità da sviluppare a livello internazionale e alla gestione di team compositi e multiculturali potrebbe essere di prezioso supporto.
Il manager del futuro, sia della piccola che della media e grande azienda, sarà infatti multitasking, internazionale e multiculturale. Dovrà curare l’innovazione e un’etica del business che valorizzi la diversità e deve essere visionario, con capacità di ipotizzare scenari futuri a medio termine che tengano sempre conto di aspetti multidisciplinari, vista l’elevata interconnessione tra settori diversi (Industria 4.0, Green e Circular Economy).
Differenze di complessità nelle capacità manageriali
Dalle interviste dirette è emerso che, nelle imprese di minor dimensioni, le dinamiche sono meno complesse e più complesse insieme: meno complesse, perché i temi affrontati possono essere più circoscritti, quindi la competenza tecnica specifica deve essere sì profonda, ma meno ampia rispetto a quella necessaria nella grande impresa; più complesse perché un manager funzionale deve essere in grado di comprendere il linguaggio delle altre funzioni per interagire efficacemente con i relativi responsabili.
Inoltre, nelle grandi imprese le competenze tecniche sono spesso presidiate senza entrare troppo nel dettaglio, gestendole più ad alto livello, mentre ai manager di pmi è richiesto di entrare più nel dettaglio. Quanto alle competenze relazionali, queste diventano sempre più importanti crescendo nella scala gerarchica.
Anche i manager di funzione, infatti, devono gestire persone, che sono il proprio team, sia esso prettamente operativo, nella produzione ad esempio, o nella ricerca e sviluppo, oppure in ambito amministrativo. A maggior ragione, passando a un ruolo di project/program manager e/o di top manager, la capacità di leadership diventa di importanza cruciale e la complessità delle relazioni massima.
Ancora una volta, per i manager di pmi il contesto è meno complesso e più complesso insieme. Meno complesso perché l’insieme di relazioni è più contenuto, sia interno sia esterno, ma è più complesso perché vengono a crearsi rapporti più intimi e informali da gestire in caso di conflitto.
Per questo un manager di pmi deve prestare particolare attenzione alle relazioni, dimostrando doti di ottimismo, empatia e umiltà ed evitando di pensare che le problematiche o le possibilità di errori si riducano con la diminuzione della dimensione aziendale. Infine, riguardo alle abilità cognitive, oggi serve a tutti una grande versatilità e forse ancor di più nell’approccio ai problemi delle pmi.
Mobilità tra grande e piccola impresa
Secondo gli intervistati, sarebbe più frequente il passaggio di un manager dalla grande alla piccola e media impresa, che non viceversa, perché vi troverebbe più soddisfazione con un contributo diretto.
In tal caso, i manager arrivano più preparati sui metodi di lavoro e sulle procedure, ma devono riuscire a calibrarli su una taglia più piccola, impegnandosi di più in prima persona e affrontando anche compiti più operativi. Potrà trovarsi a gestire anche attività che non sono a tutti gli effetti di propria diretta competenza, in una logica più multitasking e interfunzionale, affrontando le tematiche tecniche con un approccio più di dettaglio.
Il passaggio inverso, invece, dalla piccola alla grande impresa, comporta una riduzione di responsabilità a parità di ruolo e, al tempo stesso, una maggior complessità da monitorare e una maggiore visibilità sul mercato, con il rischio che anche dei minimi errori di comunicazione o incidenti di etica del business possano minarne la credibilità. Un manager proveniente da una pmi potrà anche avere difficoltà ad allinearsi con le funzioni trasversali tipiche di uno schema organizzativo di tipo matriciale, in cui emerge la necessità di gestire processi più complessi, catene decisionali più lunghe e una divisione più netta dei diversi ruoli aziendali.