Una chiara visione, la capacità di empatia e la responsabilizzazione sui risultati, lasciando più spazi di autonomia, sono tra le principali leve per migliorare il livello di engagement secondo la ricerca dell’Osservatorio Managerial Learning di Asfor e Cfmt. Il profilo del leader post pandemia e il ruolo centrale dei giovani.
Italiani stanchi, con un livello di engagement peggiorato nell’anno del Covid, caratterizzato da un esteso e forzato lavoro da casa. Sul calo di energia, motivazione, coinvolgimento e produttività dei lavoratori avrebbero inciso almeno tre fattori. La fragilità emersa con la perdita di controllo su ciò che accade intorno a noi, che ha risvegliato la paura della morte e provocato un cambio repentino del modo di vivere, con limitazioni alla libertà personale, trauma che ora richiede una gestione post traumatica non ancora abbastanza interiorizzata.
L’incertezza sul futuro della vita personale, sociale e lavorativa, che sottrae senso ed energia alle azioni che si mettono in campo e, infine, la remotizzazione delle attività quotidiane, che ha isolato le persone e svuotato la relazione, che è un propellente per attivare l’energia. Infatti, l’ingaggio, la motivazione e il coinvolgimento aziendali sono fortemente sostenuti dall’energia vitale che, a sua volta, può essere attivata da una forte visione e dalla dimensione della relazione.
Quali azioni mettere allora in campo nelle organizzazioni per recuperare engagement e sviluppare un approccio resiliente, come nella fase iniziale in cui si sono serrati i ranghi per far procedere il business? Di seguito le proposte emerse da manager, Ceo e giovani professional nell’ambito della ricerca “L’engagement al tempo della pandemia e oltre”, promossa dall’Osservatorio Managerial Learning di Asfor, l’associazione nazionale della formazione manageriale e Cfmt, la società di formazione di Manageritalia, la federazione dei manager del terziario.
Per l’indagine è stato seguito il metodo Delphi, di carattere qualitativo, con focus group e interviste individuali, con il coinvolgimento complessivo di una cinquantina di dipendenti con ruoli contributivi di 30 aziende italiane, di cui 21 grandi, 6 medie e 3 piccole.
I chiaroscuri del lavoro da remoto
Lavorare cinque giorni su cinque da casa, senza essere pronti a livello culturale e organizzativo, ha fatto saltare da un lato la dimensione sociale e informale della vita d’ufficio e, dall’altro lato, i confini tra vita privata e attività professionale, che si sono fortemente sovrapposte. Il fenomeno dell’iperlavoro e dell’efficientismo, cui si è assistito nel ritmo del lavoro dell’ultimo anno e che è stato confermato dalla ricerca, è un ulteriore fattore di rischio per la tenuta psicologica e contributiva dei dipendenti.
Questi, come via d’uscita, chiedono un nuovo equilibrio tra libertà e regole per tutelare meglio l’autonomia stessa e la flessibilità dei tempi e luoghi di lavoro. In sostanza, i lavoratori non vogliono rinunciare alle conquiste di quest’anno, dal risparmio di tempo negli spostamenti tra casa e ufficio, all’efficienza delle riunioni, che ritengono siano state gestite bene sulle piattaforme, senza perdite di tempo, ma certo in successione troppo serrata.
Alla fine, hanno riconosciuto anche una maggiore conciliazione tra lavoro e impegni personali, ma aspirano a un modello di lavoro ibrido, con un rientro in ufficio 2-3 volte alla settimana e dove, quando lavoreranno in modalità smart, sia garantita più autonomia e flessibilità sul dove, quando e quanto. Viene suggerita anche un’analisi per individuare le attività più adatte al lavoro a distanza, con una riqualificazione e formazione delle persone perché ne possano trarre il maggior valore possibile.
«Il lavoro a distanza non è stato vero smart working, ma un remote working forzato e massivo che, in poche settimane, ha obbligato milioni di persone a lavorare esclusivamente da casa. Quello che è successo è stata una invasione di campo del lavoro negli spazi privati, sia fisicamente sia psicologicamente, spesso senza soluzione di continuità tra l’ultima riunione e la cena e tra gli spazi di condivisione con i propri cari e la propria postazione con il computer», commenta Marco Vergeat, presidente Asfor.
Non è questo il modello di lavoro agile espresso dalla legge 81/2017, che prevede libertà di organizzazione del lavoro per “cicli, fasi e obiettivi”, senza vincoli spaziali e temporali e senza una postazione fissa, alternando ufficio e location da remoto, non per forza da casa, ma anche ambienti di co-working e luoghi pubblici, purché venga garantita la sicurezza personale e dei dati aziendali e previo accordo con il proprio responsabile sull’alternanza tra presenza e distanza.
Di fatto in Italia, prima della pandemia, si stavano facendo delle sperimentazioni sui nuovi modelli organizzativi, con progetti pilota nelle grandi aziende, per un totale di 570mila smart worker stimati dall’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano, per lo più comunque con una media di lavoro smart una volta alla settimana. Si tratta infatti di cambiamenti culturali e organizzativi che richiedono tempo e maturazione anche a livello gestionale e di leadership, per esempio nel passaggio dal criterio del controllo sul lavoro dei collaboratori a una gestione più per obiettivi e responsabilizzazione, lasciando margini di autonomia sulle modalità e tempi di esecuzione dei progetti.
Il leader post-pandemico
Qual è dunque lo stile di leadership auspicato e suggerito dalla ricerca di Asfor-Cfmt per risollevare il morale dei collaboratori, rendendoli più partecipi, coinvolti e contributivi?
La capacità di visione è al primo posto e mai come in quest’anno ha confermato il suo valore nel dare un orientamento in un contesto così incerto e precario rispetto al futuro. «L’effetto traente e rassicurante della visione, che ne è costituivo, quest’anno è stato particolarmente apprezzato e decisivo e viene ricercato anche nella gestione futura delle organizzazioni», precisa Vergeat.
Ci si aspetta anche un impianto valoriale solido, che trasmetta coerentemente il purpose della società; un mindset dinamico e aperto all’ecosistema per favorire collaborazione e innovazione; una sempre maggiore chiarezza, efficacia e trasparenza comunicativa e lo sviluppo di empatia e inclinazione a creare legami e relazioni anche personali e informali.
La remotizzazione del lavoro e delle relazioni, infatti, ha fatto emergere il valore di un’attenzione sincera alle persone, al di là delle necessità lavorative ed è auspicata anche in quello che sarà il lavoro ibrido. Ovviamente ci si aspetta autenticità, consapevolezza e capacità di coinvolgere e responsabilizzare, secondo un nuovo modello organizzativo che favorisca davvero lo smart working. In sintesi, ci si immagina un leader che sia “un abilitatore e valorizzatore di persone, team e comunità”.
Il ruolo dei giovani
Vittime al presente, protagonisti al futuro: insieme alle donne i giovani sono quelli che hanno pagato di più il prezzo della pandemia, sia per chi stava entrando nel mondo del lavoro, sia per chi vi era appena entrato.
Eppure sono le risorse su cui puntare per la ripresa. «Portatori di maggiori energie e spinte innovative, più propensi a vedere spiragli di opportunità oltre il presente e fondamentali per una ricostruzione post pandemica che si avvalga della trasformazione digitale. Anche consapevoli che non basterà avere dimestichezza con i tool digitali, ma servirà vision, cultura strategica e conoscenza dei processi da digitalizzare», conclude Vergeat.